SCULTURA sostantivo femminile
Osservare la scultura da un altro punto di vista, quello femminile
Attraverso il volume, dentro lo spazio: Gabriella Benedini, Amalia Del Ponte e Grazia Varisco.
Marcella Cattaneo, storica dell’arte e curatrice, propone una prospettiva interessante, suggerita dalle indagini condotte da tre importanti scultrici che hanno attribuito al volume un nuovo senso.
Biblioteca Centro Cultura “Tullio Carrara”, Nembro
Giovedì 19 settembre 2024, ore 20.30
Gabriella Benedini, Amalia Del Ponte e Grazia Varisco
Osservare la scultura da un altro punto di vista, quello femminile, è sempre stata per me un’occasione molto stimolante, tanto più se si parla di ricerche artistiche del XX secolo, dove alla sperimentazione linguistica rispondeva un altrettanto audace sperimentazione materica. La prospettiva più interessante mi è stata suggerita dalle indagini condotte da tre importanti figure della scena artistica italiana, tre scultrici che hanno attribuito al volume un nuovo senso: Gabriella Benedini (Cremona 1932), Amalia Del Ponte (Milano 1936) e Grazia Varisco (Milano 1937).
Gabriella Benedini è una scrittrice di mondi; le sue narrazioni plastiche affondano nella storia. In un solo elemento convivono epoche, periodi distinti e ad un tempo inscindibili, un solo elemento che si pone come memoria futuribile. Il senso del volume in lei è forte ma ancor di più la necessità della scrittura che trova campo ora sulla bianca pagina ora sulle superfici delle opere. Nelle Mappe e nei Carteggi questa urgenza si fa stratificazione di alfabeti segnici, che emergono consunti tracciando nuove rotte significanti, aprendo nuovi fecondi e sconosciuti immaginari. La scrittura si fa racconto, racconto di viaggio e il racconto si fa scultura.
Amalia del Ponte a partire dal 1967 affida a dei grandi Prismi in plexiglass, chiamati Tropi, la sua necessità di attraversare la materia, di indugiare al suo interno non più manualmente alla ricerca di quel vuoto-pieno, ma di soffermarsi sulla risonanza dei corpi trasparenti che agiscono lo spazio. Questo processo di dematerializzazione del volume continua in modo più o meno evidente lungo tutta la sua ricerca, un percorso che vuole giungere all’anima prima, alla struttura della materia, all’essenza dell’animo. Negli anni Ottanta, il volume, la materia ritorna evidente in tutta la sua fisicità, eppure piegato alle necessità di una ricerca sul suono e sulle onde sonore (Litofoni). Nel suo operare si assiste ad uno svuotamento della massa, fino ad una sua negazione a favore di una apertura in direzione di un’ azione partecipata.
Grazia Varisco ha esplorato e fatto proprio il campo della percezione. La più grande libertà nasce dal più grande rigore (Paul Valery), una frase che evidenzia in modo esemplare la ricerca di Varisco, fatta di incertezze appositamente create e dunque perfettamente controllate, capaci di innescare nuove esperienze. Partita dallo studio del gioco e del movimento, giugne allo studio attento e insistito del CASO (Extrapagine). Questa “anomalia inaspettata” si carica contemporaneamente di una nuova spazialità e le superfici piene in carta o alluminio, si svuotano in direzione di una smaterializzazione del volume, ma sempre entro una percezione difforme della forma nota, riconosciuta: nascono gli Gnomoni e le Meridiane. Listelli di ferro si accampano nello spazio, recingendolo in un contrasto continuo tra realtà contingente e realtà fenomenica.
Tra ricerche che passano attraverso il volume per sondare lo spazio, spronandoci a leggerne la profondità e la sua alterità.